E’ quasi impossibile parlare soltanto di uno dei tanti ruoli di Manuel Agnelli, voce e chitarra degli Afterhours, essendo lui ognuno e tutti quei ruoli, e così abbiamo spaziato, parlando di cosa rappresentano ora gli “After”, di media, mercato, collaborazioni, suoni, futuro, un po’ del passato, degli anni ’70, degli anni ’80, di Mauro Pagani…
Le cose sono cambiate. Sono cambiate dal mini-cd di debutto “All the good children go to hell” – segnalato da Mucchio Selvaggio fra i dieci migliori dischi italiani degli anni ’80 – al successo di “Non è per sempre” (1999). Gli Afterhours sono cresciuti, hanno abbandonato coraggiosamente l’inglese per l’italiano, hanno proseguito l’ardua via della sperimentazione; Manuel Agnelli è cresciuto e nonostante il mondo che naviga in superficie si ostini a ignorare questo e altri fenomeni, Manuel era, si è dimostrato ed è uno dei più grandi talenti della musica italiana, o per essere più precisi, del rock italiano, comunque una definizione stretta. Molto stretta se pensiamo alle ballate struggenti, agli urli hard core, alla sperimentazione linguistica e alla ricerca sonora e nella ritmica che caratterizzano il lavoro di Manuel Agnelli (voce e chitarra), Xabier Iriondo (chitarra), Giorgio Prette (batteria), Andrea Viti (basso), Dario Ciffo (violino). “Non è per sempre”, il loro ultimo lavoro è stato un album di svolta, che alle orecchie dei fan, abituati al treno ad alta velocità di “Germi” e “Hai paura del buio?”, ha suonato per i primi ascolti un po’ storto. Ripresi dallo stordimento iniziale, è stato un attimo per tutti capire che si stava ad ascoltare un altro capolavoro.
Tra gennaio e febbraio 2001 uscirà l’annunciato doppio live, ma già nella testa di Manuel gira il successore di ‘Non è per sempre’. E dai suoi poliedrici emisferi ci si aspetta un’altra deviazione: spiazzare è un po’ vivere…perché “se c’è una cosa che è immorale, è la banalità”, lo dice Manuel stesso. Un concetto che per certi versi lo si trova anche fra le righe, o se preferite fra le parole di questa intervista. E’ quasi impossibile parlare soltanto di uno dei tanti ruoli di Manuel Agnelli, essendo lui ognuno e tutti quei ruoli, e così abbiamo spaziato, parlando di cosa rappresentano ora gli “After”, di media, mercato, collaborazioni, suoni, futuro, un po’ del passato, degli anni ’70, degli anni ’80, di Mauro Pagani…
Come si pongono gli Afterhours all’interno del panorama musicale nostrano, dopo tre album riconosciuti come capolavori, tanto che in molti sostengono che il rock italiano dovrà per forza fare i conti con voi e con il vostro ultimo ‘Non è per sempre’?
Credo che gruppi come il nostro, e mi riferisco anche a Subsonica, 99 Posse, abbiano già avuto i loro riconoscimenti artistici – certo si può sempre fare di meglio, i progetti possono sempre crescere – però visto che siamo degli adulti, tutti abbiamo più di trent’anni, credo che pensare soltanto ad avere l’ennesima copertina di Rumore, l’ennesimo disco del mese, l’ennesimo riconoscimento, sia abbastanza meschino. Vorremmo invece avere, seppur piccolo, un ruolo sociale, come ce l’ha il panettiere per esempio. Proprio per questo stavo cercando di organizzare un festival itinerante, che dovrebbe essere il principio di un tipo di azione che dovrebbe portare un po’ di coscienza ai media, che ancora rifiutano il fatto che ci sia una scena enorme intorno a questi gruppi.
Sarà in buona parte colpa dei media, ma non è vero che anche le etichette discografiche sono ancora molto restie a sostenere quei gruppi italiani che non puntano soltanto a far girare il proprio ultimo singolo per tutte le radio?
Io penso che nelle etichette italiane non ci sia molto talento, in generale, e soprattutto nelle multinazionali, che essendo l’ultimo anello di una catena di filiali sparse per il mondo, hanno ai posti di comando i manager di minor talento. Quindi, è chiaro che non ci sono grandi idee. E’ questa è una delle cause della crisi delle vendite del disco. Però è anche vero che il pubblico è enorme, è cresciuto e continua a crescere. Noi lo vediamo ai nostri concerti: dovevamo fare cinquanta date quest’anno, ne abbiamo già fatte il doppio, l’anno scorso centodieci, e potremmo andare avanti all’infinito, ci ferma soltanto la stanchezza. Ma i media, chiaramente lottizzati, non si accorgono di tutto questo: radio e giornali o hanno all’interno compartecipazioni delle grandi multinazionali del disco, oppure appartengono a grossi gruppi editoriali che impongono una certa linea, che è quella di trasmettere o sostenere i trenta successi più grandi della stagione. E tutte le radio trasmettono i soliti trenta successi, come se tutti i dee-jay avessero gli stessi gusti.
C’è poi una situazione parallela, diciamo di culto, che è la nostra e quella di altri gruppi, che in realtà è cresciuta tantissimo e dal vivo fa più numeri della situazione ufficiale: perché noi facciamo più pubblico di Ron, di Finardi, però è anche vero che queste cose vengono completamente rifiutate dai media, perché non facciamo parte di questo “cartello” di musicisti. Quello che vorremmo fare noi, è risvegliare un po’ la coscienza popolare rispetto a questo strano fenomeno.
Gli anni ’70 dal punto di vista musicale sono stati anni di grande fermento, con gruppi come Banco del Mutuo Soccorso, Area, Premiata Forneria Marconi che riuscivano a destare l’attenzione anche del mercato estero. Poi c’è stato il nulla degli anni ’80. E ora?
Quelli che hai citato sono i gruppi migliori degli anni ’70, perché in realtà gli altri si limitavano a fare cover. Penso che gli anni ’80 siano stati volutamente un periodo di instupidimento generale, nel corso dei quali la discoteca ha preso il posto delle manifestazioni live. Negli anni ’90 è arrivata la reazione: il pubblico è tornato all’aperto, i promoter hanno lavorato molto bene. Credo che questa ondata di gruppi, nati dalla fine degli anni ’80 fino ad oggi, sia un fenomeno considerevole, anche se negli anni ’70 le band avevano una grossa visibilità: la Pfm andava prima in classifica, faceva tour in America… ma alla fine credo che questa scena abbia sofferto moltissimo della mediocrità degli addetti ai lavori e anche dei media e dei giornalisti. Credo anche che i gruppi degli anni ’70 non avessero un talento superiore al nostro, però hanno avuto possibilità di svilupparlo più di noi, sicuramente. Perché il culo ce lo siamo fatti anche noi, non siamo dei viziati: io nonostante stia bene di famiglia ho vissuto con cinque/settecentomila lire al mese per dieci anni, facendo vari lavoretti mentre suonavo, proprio perché non volevo fare il figlio di papà. Quindi non ho vergogna a dire che in realtà dal punto di vista delle strutture intorno a noi ci saremmo meritati di più. Sento però che adesso c’è fermento per un cambiamento deciso, perché il pubblico ormai è ascoltato, anche se i media rimangono ancorati a un certo tipo di linguaggio e stanno raschiando il fondo del barile; però il pubblico ha ormai impostato la grande svolta.
Gli Afterhours e Mauro Pagani, ex Premiata Forneria Marconi. In ‘Non è per sempre’ lo ringraziate per l’aiuto e l’ispirazione. Qual è il suo ruolo?
Direttamente non un grande ruolo. Nel senso che Pagani è sempre una persona molto rispettosa del mondo altrui, per cui non è uno che, siccome ha esperienza, siccome ha talento, si impone. Anzi spesso, purtroppo, ha dei problemi di comunicazione con qualcuno per questo motivo; perché è fin troppo rispettoso, quindi fa fatica a dirti esattamente come sono le cose per lui.
Dice poco ma fa intendere molto da quanto si capisce. Non esprime giudizi sul vostro lavoro?
Esprime giudizi. E’ una persona molto sincera. Ma fa tutto in maniera molto rispettosa: se glielo chiedi te lo dice, altrimenti non si intromette più di tanto. Credo che Pagani sia una specie di piccolo guru per la scena di Milano, e per tutta Italia. Nel suo studio sono passati gli Almamegretta, noi, Vinicio Capossela, i Bluvertigo, Cristina Donà, i Massimo Volume. E’ una persona con un fascino, una cultura, un talento enormi. Una persona la cui vicinanza ti stimola. Chiedere consigli a lui sugli strumenti ti stimola. Sentire le sue storie ti stimola, anche se poi lui non partecipa direttamente al disco. E’ una persona ancora molto giovane…uno che mette su uno studio di registrazione alla sua età, dopo tutta la sua carriera, vuol dire che ha vera passione per la musica, sennò fai altro…uno studio di registrazione, ti assicuro, è una rottura di coglioni infinita.
Una costante ricerca su testi, musica e suoni è ciò che caratterizza il tuo lavoro. ‘Non è per sempre’ è stato l’ennesimo album di svolta, quasi Afterhours non fosse solo il nome di un gruppo, ma un vero e proprio progetto work in progress; ora ci aspettiamo lo sviluppo di quel nuovo corso che hai detto di aver intrapreso puntando sull’elettronica analogica vintage…
Sì, è un tipo di elettronica che si utilizzava alla fine degli anni 60 inizio anni ’70: non è il computer, il campionamento, l’elettronica analogica è fatta da strumenti elettronici che però vengono, intanto, manovrati manualmente, e poi che producono dei suoni, o degli input, non digitalmente, cioè non tramite trasmissioni di numeri ma tramite trasmissione di impulsi: è un fenomeno fisico, più umano e più interessante dal punto di vista timbrico, perché nessun tipo di suono è uguale a un altro, ogni suono ha una propria personalità, a seconda dello stato di manutenzione della macchina, del modo in cui la usi. Mentre nel digitale c’è sì una gamma enorme di suoni, ma anche un appiattimento enorme, tutti i suoni sono esattamente uguali. Fra le altre cose credo che, visto che la tecnologia ha portato l’analogico a migliorare molto dal punto di vista delle circuitazione, delle componentistiche, credo che l’analogico sia un mondo da riscoprire, che darà la birra al digitale entro poco tempo, riportando un po’ di personalità alle timbriche che negli anni ’80 si erano perse completamente.
Tra le note di ‘Non è per sempre’ dove si trova il seme che troveremo germogliato nel prossimo lavoro?
Sicuramente nell’uso delle chitarre non come chitarre, ma come generatori di suoni: un uso non ortodosso. Credo che i muri di suono, così per come sono stati negli anni ’90, non dico che ci abbiano stufato, perché non è vero, ma credo che siano stati utilizzati a sufficienza. Così vorremmo fare muri di suono con altre fonti sonore.
Rabbia messa da parte quindi?
No, assolutamente. Anzi, perso che il prossimo album sarà più duro di ‘Non è per sempre’. Però con suoni diversi da quelli che avevamo utilizzato in passato. Con meno chitarre tradizionali e con uso di effettistica vintage, perché Xabier (il chitarrista n.d.r.) si sta specializzando sempre di più in questo. E poi probabilmente proveremo delle strutture un po’ più dilatate. Già in ‘Non è per sempre’ c’è qualche approccio: un paio di pezzi che durano un po’ più dei canonici tre quattro minuti.
Manuel Agnelli è uno “sperimentatore linguistico”?
Sono stato criticato perché ho osato dire che questa generazione di musicisti dà un’importanza tale alla parola e allo stesso tempo la rispetta così poco, la violenta, che in realtà sta facendo un lavoro di cambiamento sull’italiano. Sono sempre più convinto di questo. Sarò molto presuntuoso, ma sono convinto che noi siamo molto grezzi nel lavoro che stiamo facendo…per noi intendo io, i Marlene Kunz, Cristina Donà, Massimo Volume eccetera…non abbiamo raggiunto né i vertici del miglior cantautorato, né la sperimentazione dei futuristi, per esempio, però è anche vero che stiamo agendo con molta coscienza e che incastrare l’italiano in queste strutture melodiche che non sono tipiche della tradizione italiana, vuol dire veramente modificarlo,violentarlo, nei suoni, nella ritmica, se non tanto nel significato. Poi lavoriamo molto per immagini e quindi ci stacchiamo comunque dalla tradizione cantautorale.
Con il tuo lavoro hai attirato l’attenzione di musicisti “planetari”…
Sì, ultimamente abbiamo ricevuto enormi riconoscimenti da parte di numerosi gruppi, come i R.E.M. A fine agosto sono stato a Londra, invitato a una festa da Dave Grohl, ex batterista dei Nirvana e ora impegnato nel progetto Foo Fighters, perché ha ascoltato Germi e gli è piaciuto. Collaboreremo con gli Afghan Whigs perché Greg Dulli, il cantante, è un nostro grandissimo fan. Faremo, probabilmente, spero che vada in porto, un tour con i Flaming Lips, alla fine di quest’anno o all’inizio dell’anno prossimo. Tutto questo ci convince sempre di più di aver preso una buona strada, e di dover, chiaramente, migliorare ancora tanto, però anche di perdere i complessi di inferiorità che stanno frenando tantissimo la scena italiana. Il complesso di inferiorità un po’ l’abbiamo noi nel sangue, un po’ ce lo impongo i media, che cercano sempre di minimizzare questa scena musicale: non parlo di tutti, perché c’è qualcuno un po’ più intelligente, che ha una visuale più ampia.
E come fare per uscirne?
Un fenomeno non si crea soltanto con la musica pura, pensa alla scena di Manchester con gli Happy Mondays, i Charlatans, gli Stone Roses, era una scena oggettivamente molto scadente dal punto di vista musicale, però ne hanno creato un caso enorme. Avevano bisogno di far rinascere l’Inghilterra e i media hanno pompato questa scena all’estremo, fino a quando non è esplosa. Pensa ai Blur, agli Oasis, chiaramente degli ottimi gruppi, ma certamente non dei geni. Non mi sentirei di dire che hanno cambiato la musica. Però pensa a quanto li hanno pompati. Allora, c’è secondo me in Italia, nell’intellettuale italiano, una paura mostruosa di rischiare, di sbagliare, quindi, limiamo troppo le virgole e stiamo sempre lì dove eravamo. Invece bisogna avere il coraggio di sbagliare, di osare tanto e di fare anche delle cose non riuscite.
La mancanza di coraggio è il solo problema?
Secondo me tecnicamente siamo migliorati tantissimo: siamo migliorati tantissimo dal punto di vista dei materiali, ormai possiamo avere tutto quello che hanno già all’estero; abbiamo anche dei fonici molto bravi, pochi, ma quei pochi sono molto bravi, qualche produttore comincia ad affacciarsi, i gruppi mediamente hanno migliorato tantissimo dal punto di vista professionale…mi fa incazzare che ci sia un mercato costituito per il singolo radiofonico…mentre all’estero ci sono dei buchi anche per i gruppi di qualità, perché c’è un circuito di qualità anche fra gli addetti ai lavori: i manager, i produttori, i giornalisti, che hanno una grande visuale e lavorano per far succedere qualcosa, per mantenere l’atmosfera frizzante.In Italia personaggi così quasi non esistono e quei pochi, troppo pochi, sono naturalmente molto legati. E per questo tutti i gruppi nuovi che nascono mirano prima al successo, che alla personalità e alla qualità. Negli anni ’80 il mercato era ridicolo e quando noi abbiamo iniziato, la cosa che ci interessava di più era crearci una personalità. Adesso un gruppo inizia e dice, ‘vogliamo avere successo, cosa dobbiamo fare per sfondare?’ e il singolo è l’unica cosa sul quale puoi lavorare in Italia, perché non c’è un vero mercato alternativo. Credo che a tutti noi una grossa mano la dia il live. Secondo me chi ha un pubblico live radicato e forte, può stare tranquillo. Tempo due anni e il mercato del disco collassa definitivamente.
Il pubblico ai concerti cresce, come hai detto anche tu, e crescono anche i Festival…
Quando c’è qualcosa che funziona, in Italia ci si butta senza misura, ciò è la dimostrazione che qui c’è una cultura del consumo che è barbara: prendiamone finché ce n’é… Credo che siano ormai veramente troppi i festival, troppo concentrati in un solo periodo, quello estivo, e quindi stanno diventando sempre meno efficaci…veramente vivo è rimasto soltanto Arezzo Wave.
Da musicista a produttore (oltre naturalmente agli Afterhours, Massimo Volume, Scisma, Pitch, Cristina Donà) e ora scrittore. Mondadori (nella Piccola Biblioteca Oscar) ha appena pubblicato ‘Il meraviglioso tubetto’, rielaborazione arricchita dei ‘Racconti del tubetto’. Come è nato questo progetto?
E’ una scelta coraggiosa della Mondadori, che ha voluto puntare su un gruppo di musicisti scrittori pseudo alternativi, comunque ancora di culto, diversi dai soliti Vecchioni, Ligabue, Javanotti, che garantiscono comunque grandi vendite. Io, come gli altri riuniti nella collana, siamo stati scelti perché rappresentiamo forse qualcosa di fresco, e tutti scriviamo da sempre: per noi la parola ha un’importanza fondamentale. Abbiamo sempre scritto, continuiamo a farlo nelle forme che conosciamo, non tradizionali. Il mio libro è fatto di testi sul quale ho lavorato molto tecnicamente, utilizzando parecchio il cut-up per esempio, e di racconti che non vogliono essere altro che storie. Alla Mondadori ho avuto una libertà pazzesca. Infatti, credo che il mio libro non sia un tipico Oscar Mondadori.
Credo sia un libro sì molto particolare, ma anche molto autobiografico.
Sì, scrivere alcuni testi e alcuni racconti è stato un po’ come mettere il punto a certe situazioni. Ho vissuto queste cose, le tiro fuori e finalmente per me finiscono, escono da me e rimangono lì sulla pagine, diventano degli altri. E’ un po’ come liberarsi di certe situazioni, è una catarsi
Questi racconti li stai leggendo in numerosi reading in giro per la Penisola, con Emidio Clementi dei Massimo Volume…
Sì, sono reading di racconti, poesie, testi. E penso che andremo avanti ancora per molto, anche se non vogliamo farla diventare una cosa professionale. Il progetto deve rimanere il più volontario possibile, anche se è in continua lenta evoluzione. Presto registreremo in India un po’ di spunti sia sonori sia scritti, probabilmente realizzeremo anche un cortometraggio su questa esperienza. Non abbiamo però scadenze e non vogliamo che ci siano.
Da circa un anno vivi a Bologna, che rapporto hai con la tua Milano nel quale sei cresciuto e verso il quale però sembri molto critico? Ancora “Milano non è la verità”, come dici in un tuo pezzo?
Sì. Però ho imparato non dico a rivalutarla, ma ad apprezzare i lati spietati di Milano. Milano mi è sempre parsa molto noiosa, perché è una città molto borghese e molto grigia, e non è neanche borghese come Bologna, perché gli manca l’aria “godereccia” di questa città. Ma Milano, da un certo punto di vista, sta diventando sempre meno borghese, perché le contraddizioni della metropoli stanno diventando sempre più grosse: l’immigrazione, il grigiore, la quotidianità, l’inquinamento, tutti gli stress tipici delle metropoli stanno ingigantendosi a Milano. E’ per questo che credo che stia diventando anche ‘verità’. Mi sono accorto che Bologna è un grande paese dei balocchi, però in realtà tutti vivono questa specie di vita virtuale, si sentono molto confortati uno con l’altro, sono tutti artisti, tutti pittori, tutti scultori…all’inizio è molto bello, poi scopri che c’è veramente poca sostanza dietro. Fra l’altro c’è una presunzione pazzesca. A Milano siamo antipatici, però è anche vero che se non fai niente non sei nessuno…è tanto spietato quanto vero. Credo di aver sentito la mancanza di questa spietatezza a Bologna. Milano la trovo comunque sempre brutta, molto brutta, però sempre più sincera, e per certi versi mi manca la sincerità della sofferenza che c’è in questa città. Ma c’è ancora un grosso neo: a Milano si produce tutto, ma non si crea niente.
Christian Ronzio