Negli States mercato discografico quasi fermo…

Non bastano neppure Eminem, gli U2 e il solito battaglione di rapper afroamericani, a quanto pare, a pompare ossigeno nei polmoni dell’asfittico mercato della musica Usa, dove case discografiche e negozi di dischi annaspano con poche eccezioni nel tentativo di salvare vendite e bilanci.

A dispetto delle previsioni forse troppo ottimistiche di qualche operatore e/o osservatore esterno del mercato, la ripresa è molto inferiore a quanto si auspicava: i dati di vendita elaborati elettronicamente da Nielsen SoundScan rivelano che se a metà settembre la crescita del mercato rispetto all’anno scorso (in numero di pezzi) superava il 7 %, a inizio dicembre, e dunque proprio nel periodo cruciale dell’anno, tale incremento si è assottigliato al 2,6 %.

Fatto ancora più preoccupante, sono dodici settimane filate che le vendite settimanali risultano inferiori a quelle del 2003: un problema che non riguarda tanto gli “hits” (i primi 20 in classifica vendono complessivamente di più, quest’anno) quanto il catalogo, penalizzato dalla crescita di potere dei “mass merchandisers”, i grandi magazzini come Wal-Mart e Best Buy che vendono solo i successi e per di più a prezzi spesso insostenibili per gli altri commercianti.

Gli altri motivi della crisi sono ben noti, tanto da venire snocciolati ormai come un ipnotico mantra: file sharing illegale, masterizzazione casalinga, concorrenza feroce di beni di consumo alternativi come lettori di musica digitale (l’onnipresente iPod in testa), televisori a schermo piatto, telefonini multiuso, Dvd, videogiochi di nuova generazione e così via.

Intervistato dalla Reuters, Glen Ward, presidente dell’associazione nazionale dei rivenditori di dischi Narm, lancia l’allarme: “Stiamo ignorando il consumatore, a nostro rischio e pericolo”. E Jim Urie, capo del settore distribuzione di Universal, aggiunge che è inutile sperare in capovolgimenti di fronte se l’industria non cambia strategie e atteggiamento.

Ma vale la pena di arrovellarsi su queste cifre? Secondo Ken Hertz, socio di uno studio legale con addentellati nel music business, no: “Queste statistiche sono diventate irrilevanti”, è l’opinione dell’avvocato americano. “L’industria ha subìto cambiamenti fondamentali, oggi la gente consuma musica in una molteplicità di modi nuovi. Ci sono altri introiti da tenere in considerazione, le vendite dei biglietti dei concerti, il denaro che arriva dalle radio, il merchandising, le licenze e le sponsorizzazioni. Studiare il modo in cui il business si sta evolvendo, oggi, è più importante che confrontare anno per anno quel che accade nei negozi di dischi”.

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