Strumento singolo in ensemble orchestrale
Per circa cinque anni sono stato il responsabile tecnico presso una orchestra della capitale per conto di un service. In quegli anni infatti l’orchestra si era trasferita in un nuovo auditorium ed era stato installato un impianto audio nella sala concessa all’orchestra per la propria stazione sinfonica. L’impianto veniva utilizzato con le seguenti funzioni: un uso puramente di servizio (annunci prima e dopo i concerti, avvisi per il pubblico e presentazioni); alcuni concerti di musica contemporanea e leggera che l’orchestra aveva in programma; spettacoli della stagione Educational. Data l’acustica particolare della sala (che ha fatto piangere non pochi fonici, ma questa è un’altra storia da raccontare!) alcuni direttori, per l’esecuzione di brani musicali raramente in repertorio e che utilizzano strumenti “originali”, chiedevano di poter amplificare tali strumenti. Un caso particolare ed emblematico mi occorse con una percussione chiamata Hammer ed utilizzata nella VI Sinfonia di Mahler.
L’Hammer è uno strumento (che prende il nome del termine tedesco che indica il martello) costituito da una scatola di legno aperta su una parete che viene percossa da un martello, anche questo di legno; ne esistono vari modelli sia in termini di dimensioni che con differenti tipi di foro e di grandezza della scatola risonante, con assenza completa di una parete (generalmente in questo caso sul fondo) ed in un caso con una grancassa risonante posta davanti al foro.
Per portare a buon fine il lavoro, mi interfaccio direttamente con il direttore, ma non prima di essermi informato sulla tipologia di strumento con cui avrei dovuto lavorare ed avere ascoltato la Sinfonia di Mahler in cui era utilizzato. Il maestro poi mi spiegò in modo abbastanza articolato il suono che voleva ottenere (dimostrando di conoscere bene le indicazioni date dallo stesso Mahler e le difficoltà dello stesso compositore e direttore di ottenere tale suono 1), inoltre mi chiari subito che non volava utilizzare suoni campionati poiché anche la parte scenografica, del percussionista che alza il martello, aveva la sua importanza nell’esecuzione: il suono doveva essere profondo e secco (senza risuonare troppo nella parte bassa).
Partimmo quindi dall’utilizzare due microfoni, uno esterno alla scatola (Schoeps CMC6 con capsula MK4) che guardava il punto di impatto del martello, e un secondo (AKG D112) che era stato sistemato all’interno dello strumento facendolo entrare dall’unico lato aperto, in questo caso quello sul fondo. Impiegammo circa mezz’ora per trovare il giusto equilibrio tra i due microfoni (con circa l’80% ricavato dall’AKG) e poi eliminare le risonanze che erano quasi tutte nello spettro basso dello strumento (30-80 Hz). Quando finalmente riuscimmo ad ottenere un suono che mi sembrava funzionare, il maestro mi chiese se fosse stato possibile avere un colore sonoro più profondo (cioè più ricco di componenti in bassa frequenza) dal momento che in altre occasioni ci si era riusciti: devo riconoscere che mi sentii molto imbarazzato a dovergli dire di no, ma argomentai la mia affermazione facendogli notare che lo strumento che avevamo a disposizione non aveva l’estensione in basso da lui desiderata, a causa delle sue dimensioni ridotte, e che probabilmente precedentemente aveva utilizzato una tipologia con cassa usata come risonatore. Mi aspettavo che si irrigidisse invece, con mio grande stupore, riconobbe che avevo ragione e che quello ottenuto era probabilmente il miglior risultato possibile. Le successive prove furono fatte con l’orchestra e servirono a stabilire il giusto livello di amplificazione, che subì ulteriori correzioni durante l’esecuzione con il pubblico: il problema in questa situazione è infatti di tenere lo strumento dentro l’orchestra, ad un livello tale da avere l’effetto desiderato senza che il pubblico si accorga dell’espediente tecnico utilizzato. Per fare ciò normalmente lavoro ad un buon livello di ascolto durate le fasi di scelta del colore ed eventuale equalizzazione; quando invece si tratta di trovare il giusto livello di riproduzione parto con il fader chiuso e lo apro fino a trovare la soglia in cui percepisco la presenza dovuta all’amplificazione.
L’esperienza risultò positiva, il risultato fu molto apprezzato e negli anni successivi il maestro, tutte le volte che voleva amplificare qualche strumento o realizzare qualche effetto speciale, mi mandava a chiamare per sapere se si potesse fare e come avremmo dovuto procedere. Una bella soddisfazione non credete??!! Attenzione però ci tengo a precisare, e questo è molto importante per il filo del nostro discorso, che il merito del risultato non era solo mio. E’ vero che la mia parte di lavoro (scelta del materiale da utilizzare per la ripresa microfonica, conoscenza del repertorio e dello strumento da amplificare) l’avevo portata avanti bene, ma l’ho potuto fare avendo a disposizione un buon impianto di diffusione, progettato, allineato ed equalizzato conoscendo le caratteristiche della sala, che ne completava l’acustica invece che cercare di sopraffarla, e che inoltre conoscevo bene avendoci lavorato da quando era stato installato.
Piccola orchestra in ambito teatrale
Passiamo ora a descrivere la seconda tipologia di lavoro, cioè quella di uno spettacolo in cui ensemble orchestrale e suoni elettronici si alternano ed in cui l’amplificazione serva a bilanciare due fonti sonore di natura così diversa. Tra il 2000 ed il 2002 ho avuto infatti un’altra esperienza molto formativa, avendo avuto il piacere di lavorare per una compagnia teatrale di cosiddetto teatro sperimentale, che nei suoi spettacoli (molto epici, quasi per nulla narrativi e dal forte impatto emotivo) utilizza la tecnologia per potenziare la forza comunicativa della propria drammaturgia (anzi si può dire che la tecnologia scenotecnica fosse volutamente un elemento di tale drammaturgia). Il primo spettacolo che ho realizzato con loro fu un dramma musicale a tutti gli effetti nel quale si alternavano, come colonna sonora quasi ininterrotta, alcuni Madrigali di Claudio Monteverdi e l’elaborazione sonora degli stessi realizzata da un compositore americano. I madrigali erano eseguiti dal vivo da un ensemble barocco specializzato in tale repertorio, mentre le elaborazioni elettroniche erano state realizzate in studio partendo dalle registrazioni delle prove dello stesso ensemble. Il mio compito era quindi: amplificare l’ensemble barocco (clavicembalo, cello, viola da gamba, due violini, due chitarroni, arpa barocca) e le voci dei quattro solisti (Soprano, due Tenori, Basso), equilibrare il volume di questi con i brani registrati in modo che lo stacco tra le sezioni fosse percepibile ma non troppo netto: le indicazioni fornite dalla regia erano che il passaggio fosse percepito come una cesura musicale, senza però snaturare il suono dell’ensemble barocco.
Lo spettacolo allestito in Italia sarebbe stato poi replicato a Bruxelles, Amsterdam, Strasburgo, Vienna, Parigi per chiudersi alla Biennale di Venezia. Il mio lavoro preparatorio consistette quindi nel trovare le partiture ed una registrazione dei pezzi: le prime mi furono in realtà fornite dal direttore dell’ensemble, non senza qualche insistenza 2, mentre per la registrazione scoprii che lo stesso maestro ne aveva realizzata una pochi anni prima con tutti i madrigali che mi servivano.
Per la scelta del materiale invece mi fu chiesto inizialmente di provare ad utilizzare quello di proprietà della compagnia e mi fu inviata una lista. Mi fu subito chiaro che il materiale in loro possesso era adatto solo all’amplificazione dell’elaborazione elettronica e che, dovendolo comunque integrare, fosse il caso di partire da zero. L’idea che mi venne in mente fu quindi quella di realizzare un impianto simile a quello che avevo visto ed ascoltato in Germania, utilizzato proprio per spettacoli teatrali e costituito da un impianto quadrifonico con il materiale in possesso della compagnia solo per la diffusione della musica elettronica, a cui si aggiungeva un cluster centrale ed una linea di front-fill per diffusione di orchestra e cantanti: i quattro sistemi di diffusori ed il cluster centrale veniva no sospesi all’altezza della mantovana3 del sipario, mentre il front-fill davanti all’ensemble che suonava in buca; i due sistemi di diffusori in fondo sala inoltre andavano montati in modo da permettere, in alcuni punti precisi dei brani, di sentire le sonorità girare in senso orario o antiorario.
Ottenni inoltre di avere un mixer analogico, microfoni Schoeps CMC6 con capsule MK4 per la ripresa dell’ensemble strumentale, e radiomicrofoni Shure con capsule DPA 4061 (uscite da pochissimo ma che avevo avuto la possibilità di usare in altre situazioni simili) per i quattro cantanti. Infine come riporti di palcoscenico usavo gli stessi diffusori impiegati per il front-fill, posti dietro le quinte e sul boccascena; in alcuni momenti dello spettacolo infatti la scena era veramente rumorosa e non sarebbe stato possibile sentire l’orchestra. Per lo stesso motivo un diffusore era disposto in buca per il direttore in modo da poter sentire i cantanti in qualsiasi parte del palco fossero. L’impianto era allineato partendo dal front-fill, ritardato in modo che fosse virtualmente due metri dentro la scena, da qui poi calcolavo il resto dei ritardi: all’epoca Smart ed altri analizzatori erano poco diffusi, io calcolavo i ritardi con il metro ed una formula matematica, salvo poi controllare l’allineamento con un suono percussivo (una cassa senza coda e riverbero trovata non ricordo in quale CD per audiofili).
Come delay avevo dei BSS TCS 804, come equalizzatori già da un po’ utilizzavo dei Klark Tecnik DN 410 (su consiglio del mio collega Andrea Taglia che è sempre stato più avanti di noi comuni mortali!). Proprio questi ultimi si rivelarono perfetti per riuscire a rendere abbastanza lineari ed a far suonare in modo simile i tre sistemi di diffusori molto diversi fra loro: l’ensemble con voci veniva diffuso utilizzando cluster e front-fill, mentre la musica veniva inviata all’impianto quadrifonico, differenze troppo marcate tra i sistemi avrebbero quindi reso difficile un risultato sonoro omogeneo. Tutto il sistema era quindi equalizzato per creare un suono il più lineare ed omogeneo possibile, cercando di compensare le differenze più marcate tra i diffusori, utilizzando un analizzatore di spettro a terzi di ottava XTA RT1 con il suo microfono di misura e, chiaramente, le orecchie.
Il mix dell’orchestra era monofonico poiché anche all’epoca avevo un’idea piuttosto precisa di come affrontare la diffusione di un ensemble musicale: l’orchestra va considerata come una unica compagine, un solo strumento, il qui suono si deve irradiare per la sala in maniera uniforme, non per nulla i teatri all’italiana (famosi nel mondo per la loro acustica) hanno la forma a ferro di cavallo in modo che lo spettatore senta in maniera omogenea in qualsiasi posto sia seduto. La mia esperienza mi ha poi insegnato che diffondendo il mix stereofonico di un’orchestra si diminuisce la soglia in cui ci si accorge della presenza dell’amplificazione, inoltre vi assicuro che non è una bella sensazione ascoltare durante un concerto, seduti magari su uno dei lati della platea (quindi non perfettamente al centro) le sezioni basse dell’orchestra provenire dall’impianto diciamo a destra ed il resto dal palcoscenico (si da spettatore mi è successo anche questo!). Nessuna compressione era utilizzata sulle voci e tutti i passaggi musicali dello spettacolo erano seguiti battuta per battuta.
Per il mix della parte orchestrale chiaramente di grande aiuto mi fu il direttore, il quale, dopo una iniziale ritrosia nei confronti dell’amplificazione si convinse che non se ne poteva fare a meno (varie prove, senza e con amplificazione, furono fatte durante l’allestimento) e mi fornì indicazioni preziosissime sugli strumenti utilizzati e le loro caratteristiche sonore. Mentre per bilanciare la parte elettronica (che chiaramente in alcuni passaggi suonata ad un volume consistente) con l’ensemble live mi venne in aiuto il compositore che creò una fascia sonora (denominata Tuning) che aveva il preciso compito di intervenire nelle sezioni di ponte tra le due fonti sonore, in modo da attenuare l’impatto e di permettere ai musicisti di accordarsi.
Fu inoltre proprio questo spettacolo ad illuminarmi sulla necessità di saper allestire da solo la buca dell’orchestra: averlo imparato a fare infatti mi permetteva di decidere quando fosse il momento opportuno di procedere nel corso dei successivi allestimenti, senza essere dipendente da musicisti o direttore (i quali chiaramente erano contenti di arrivare e doversi semplicemente mettersi a sedere per la prova); inoltre avendo un clavicembalo che veniva affittato su piazza ed accordato in loco, ho imparato una serie di nozioni sulle varie famiglie di accordature usate in questo repertorio e basate su temperamenti non equabili (per i curiosi l’ensemble utilizzava il temperamento Vallotti con il la a 442Hz), nozioni che mi sono state utili poi in altre situazioni.
Francesco La Camera
ZioGiorgio Network
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1 Ecco di seguito alcune indicazioni e informazioni trovate in rete proprio su questo strumento ed il suo utilizzo in questa Sinfonia.
tratto da genedelisa.com/2010/08/mahlers-hammer-blows/
“…Mahler made revisions during the course of the rehearsals. He wrote to his wife Alma that the reason he was out of touch with her was that he was spending hours after rehearsal making revisions. Alma’s memoirs relate that Mahler said that the Finale concerns a hero who “on whom fall three blows of fate, the last of which fells him as a tree is felled.” These three blows are played by a “hammer” that he described in a score footnote as being “short, mighty but dull in resonance, with a non-metalic character.” ( Kurzer, mächtig, aber dumpf hallender Schlag von nicht metallischem Charakter”) Alma wrote: “The notes of the bass drum . . . were not loud enough for him; so he had an enormous chest made and stretched with hide. It was to be beaten with clubs.” Alma leaves out the part of the story that the orchestra was making fun of Mahler as he was searching for the desired sound. At one point Mahler himself took a few whacks! (I wish Youtube existed back then! That’s a video I’d love to see) They did not use this contraption in the concert.” (note tratte da Mahler, Alma, Gustav Mahler: Memories and Letters, 3rd Edition ed. Donald Mitchell, trans. Basil Creighton, John Murray, London 1973, p.70).
2 Essendo quello di Monteverdi un repertorio particolare, nelle cui edizioni originali non sono presenti tutte le parti strumentali ma queste vanno estrapolate e realizzate partendo dal basso continuo, le partiture sono spesso frutto del lavoro di ricerca e composizione del direttore stesso. Si capisce quindi una certa ritrosia a farle circolare. Inoltre scoprii che era la prima volta che il direttore d’orchestra lavorava in una situazione di questo genere e avrebbe preferito non usare l’amplificazione, anche se alla prova dei fatti si dovette ricredere.
3 Mantovana: Elemento di stoffa, prevalentemente in velluto, che riveste la parte alta del boccascena. E’ spesso mobile per seguire i movimenti della passerella di boccascena.