I Grateful Dead nei primi anni Settanta macinavano chilometri e spettacoli, con un seguito enorme di pubblico. Come quasi tutti gli artisti, in quell’epoca musicalmente rivoluzionaria, erano insoddisfatti degli impianti che trovavano sul posto. Le poche rental company dell’epoca (la maggior parte nate dopo il concerto dei Beatles allo Shea Stadium citato qui) non erano in grado di soddisfare le richieste della band californiana.
All’alba degli anni Settanta, le attrezzature erano spesso autocostruite o realizzate su commissione; le location erano mal attrezzate, si utilizzavano i primi monitor wedge e l’uso di processori d’effetto creativi, il volume non bastava mai, i sistemi distorcevano e si rompevano facilmente, i palchi venivano estesi con “alette” per accogliere stack di diffusori acustici accostati con poco rispetto delle interazioni di fase. Il neonato show business poteva contare su esperienza pregressa di pochissimi anni, si sperimentava su tutto, nella tecnica, nella logistica, nella gestione economica, nella comunicazione ecc.
Una curiosità: la crew audio dei Grateful Dead sembra fu la prima a effettuare misure con rumore rosa per equalizzare i PA che trovavano; B&K già realizzava ottimi microfoni da misura, gli analizzatori si limitavano però a 1/3 d’ottava e gli equalizzatori avevano grossi limiti, Meyer CP10 fu commercializzato solo nel 1984).
In quell’epoca molti artisti e band cominciarono ad acquistare attrezzature tecniche, i Grateful Dead decisero di investire in attrezzature per i live nel 1972. Le richieste erano ambiziose riguardo pressione e proiezione sonora e miglioramento dell’ascolto sul palco; cinquant’anni fa gli amplificatori offrivano poche centinaia di watt, le trombe acustiche avevano grandi limiti qualitativi.
Il fonico di maggior fiducia dei Dead, Owsley “Bear” Stanley, finì quell’anno di scontare una pena detentiva per produzione di LSD. Rientrò nella crew e ideò il Wall of Sound, come soluzione per ottenere contemporaneamente buon ascolto sul palco e potenza elevata per il pubblico.
Attenzione, fra gli scopi prefissati c’erano altri fattori, difficilmente comprensibili oggi: ad esempio, minimizzare qualsiasi filtro fra creazione artistica e fruizione del pubblico.
I Grateful Dead sono stati una delle prime e più influenti jam band del rock, l’improvvisazione di gruppo era per loro fondamentale. Nel rock di quegli anni, i concerti erano concepiti come espressione artistica e non, come oggi, “puro spettacolo”. In sintonia con le turbolente rivoluzioni sociali, l’arte andava apprezzata nel modo più diretto possibile; sarebbe più corretto dire che andava “vissuta” pienamente, senza condizionamenti o intermediazioni. Lo stesso uso di droghe allucinogene era considerato un modo per abbattere condizionamenti, e liberando istintività e fruizioni sensoriali.
Owsley “Bear” Stanley racconta così le origini del progetto (trad. letterale):
“Per anni abbiamo discusso il concetto (cui io e Phil eravamo giunti), riguardo microcosmo e macrocosmo. Il microcosmo rappresentava il mondo sul palco, il macrocosmo il mondo per il pubblico, volevamo avvicinarli perché diventassero un mondo unico. Quello era il fine che volevo raggiungere. Il fonico migliore è perfettamente trasparente. Per quanto mi riguarda, il fonico dovrebbe essere superfluo quanto le tette su un cinghiale. tutto ciò che dovrebbe fare è assicurarsi che tutto funzioni e non si rompa; collegare e scollegare attrezzature tramite cavi. Quel che arriva al pubblico dovrebbe essere completamente sotto controllo degli artisti. Questo è il solo modo per avvicinarsi davvero all’arte.”
Un gruppo di tecnici legati all’Alembic, con la partecipazione della crew dei Dead e di fervide menti esterne (fra cui un giovane John Meyer, all’epoca loudspeaker designer di McCune Sound Service), progettò così un vero e proprio impianto personalizzato, che i fan chiamarono poi Wall Of Sound. In effetti, si trattava di un vero e proprio muro di speaker, posto alle spalle della band. Ad un occhio distratto, ancora oggi, appare disordinato e “accrocchiato”. In realtà, non solo fu il frutto di studi accurati e progetti innovativi; fu anche occasione di continua sperimentazione durante l’intero ciclo di utilizzo (fra il 1973 e il 1974).
Il Muro del Suono
Il Wall of Sound, di fatto, era anche una bellissima scenografia; ispirerà i muri di ampli da chitarra che, nei decenni successivi, accompagneranno molti guitar hero. Le similitudini sono, però, solo estetiche. Il Wall of Sound è stato progettato pensando esclusivamente alle prestazioni audio. Prima che i più giovani ed istruiti comincino a pensare, sarcasticamente, a deprecabili ammucchiate di speaker, ammassati a caso, con deliranti interazioni di fase, chiariamo subito un concetto fondamentale: il muro non era un unico PA, ma piuttosto un insieme di ben undici impianti, ognuno pilotato da segnali diversi. Altro che filtri a pettine… ogni strumento aveva il suo gruppo di casse, al fine di ottimizzare potenza, distorsione, dinamica, localizzazione ecc.
Addirittura, il basso di Phil Lesh montava un pickup quadrifonico, capace di inviare segnali differenti a due colonne (le più lunghe), il che permetteva di suonare accordi sul basso con la massima intelligibilità. A chi è davvero esperto del funzionamento di speaker nel mondo reale non sfuggiranno apprezzabili vantaggi riguardo fenomeni quali power compression, distorsione da intermodulazione, definizione della provenienza e spazializzazione (che oggi, dopo cinquant’anni, va tanto di moda…). Attenzione: le colonne dedicate alle basse frequenze erano, di fatto, dei line array, la cui lunghezza fu decisa tenendo conto della lunghezza d’onda alla frequenza più bassa che si voleva riprodurre (ecco perché le altezze sono differenti).
Microfoni vocali… feedback?
Uno dei problemi principali era, ovviamente, il rientro nei microfoni per le voci, posti davanti al PA; per alzare la soglia di feedback ed eliminare i rientri, fu aggiunto un secondo microfono in controfase, circa 6 centimetri sotto, per ogni cantante (differential mic). Il segnale proveniente dall’impianto, pressoché uguale in entrambi i microfoni, veniva in questo modo attenuato fortemente. Prima che vi venga voglia di recuperare l’idea: i microfoni utilizzati erano costosissimi B&K omnidirezionali matched pair; l’effetto cancellazione (come testimoniano alcune registrazioni live) era effettivamente notevole, ma con alcuni “scotti” da pagare: no effetto prossimità (quindi niente voci corpose come piace a molti cantanti/speaker), no microfono in mano per andare a giro, obbligo di mantenere le labbra sempre attaccate al mic, pena cancellazione e filtraggio a pettine della stessa voce del cantante. Ah, vietato qualsiasi processamento dinamico… eh, ci vuole una bella capacità nel saper gestire l’emissione vocale!
Ecco la descrizione generale del sistema e della gestione in tour, testualmente tradotta in italiano, da uno dei pochi documenti tecnici esistenti in merito.
DESIGNERS AND WORKSHOPS
Il sound system dei Grateful Dead è stato sviluppato negli ultimi otto anni come un’impresa tecnica e di gruppo. Sono stati fatti continuamente cambiamenti in tutte le direzioni che hanno aiutato nel migliorare la qualità del suono, sia per quanto riguaurda l’ascolto del pubblico sia per l’ascolto sul palco. Il concetto e la progettazione del sistema sono stati sviluppati da Bear, Dan Healy e Mark Raizene dello staff tecnico dei Dead e da Ron Wickersham e Rick Turner dell’Alembic. La costruzione e manutenzione è stata fatta presso la sede dei Grateful Dead dalle persone responsabili del trasporto e gestione del sistema in tour. La progettazione e costruzione di alcuni componenti elettronici speciali è stata fatta in Alembic, John Curl è consulente del progetto.
Il numero di persone in tour che segue l’allestimento della parte audio, luci, strutture e palco varia, ma la configurazione tipica è:
- Band: 6
- Sound: 10
- Lights: 4
- Staging and trucking: 7
- Road management: 3
Il sound system viaggia in un camion da 12 metri, palco e strutture in due camion aperti e le luci in un van da 7 metri. tutto il materiale pesa circa 75 tonnellate.
Il Wall of Sound merita due puntate nella serie Louder! Nel prossimo articolo: approfondimenti tecnici, curiosità, considerazioni interessanti e un po’ provocatorie sul possibile riutilizzo in chiave moderna.
Gian Luca Cavallini
ZioGiorgio Contributor
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